Ogni brand ha due target di riferimento. Individuare quello vincente fra i due è la vera sfida in termini di marketing azienda. Ma in che modo? I grandi brand hanno milioni di clienti, ma il target primario è molto più ristretto: per McDonald’s sono le famiglie, non i teenager. Per Apple sono i designer, i creativi. Per Facebook sono gli studenti, e per Nike gli atleti.
Il fatto è che è sbagliato rivolgersi a tutti. Il messaggio primario va rivolto a un gruppo molto preciso e mirato, detto“aspirational group”, che è in grado di influenzare un gruppo molto più ampio (“target group”), che è quello che genera il volume di vendite. Più è ristretto e ben definito l’aspirational group, maggiore sarà il numero di persone che compreranno il prodotto, cioè il suo successo: è uno dei paradossi del Marketing.
Di conseguenza vanno condotte due campagne distinte, con tempi diversi, prima rivolgendosi ai componenti del gruppo “aspirational”, che io chiamo “magnets”, e poi, dopo alcuni mesi, al secondo gruppo, i “takers”. Bisogna dare il tempo ai “magnets” di conoscere il prodotto o servizio, e diffondere le loro opinioni verso i “takers” attraverso i vari canali, tra i quali stanno diventando cruciali i social network.
E ora parliamo dei comportamenti legati a un’altra area del cervello, il “nucleus accumbens”, detto anche “craving spot” (l’angolo dei desideri, ndr). Ho fatto un esperimento su un certo numero di fumatori, e ho notato che la loro reazione è negativa di fronte ai logo dei produttori di sigarette, ma ci sono dei simboli “indiretti” che stimolano il loro nucleus accumbens invogliandoli a fumare, quando hanno la “guardia abbassata”. Quali? In Formula 1 i produttori di sigarette non possono esporre i loro logo, ma hanno escogitato altri modi sottili - accostamenti di colori, personaggi, oggetti (il cowboy per Marlboro, il fuoristrada per Camel, e così via), o persino codici a barre, apparentemente inutili, sulle vetture da gara - per generare dei messaggi subliminali e stimolare la voglia di fumare.
Io chiamo questo meccanismo “smash the brand”: si va oltre il logo, evocando nel consumatore un brand tramite un ecosistema di simboli, icone, suoni, immagini, colori, forme, cioè di “smashables”. Posso farvi vedere un video di un minuto e mezzo in cui non si nomina mai Coca Cola, né si vede il suo logo, ma decine di “smashables” vi faranno venire voglia di bere una Coca: la forma della loro iconica bottiglietta di vetro, l’onda bianca su fondo rosso, persino il rumore della lattina stappata e della bibita versata nel bicchiere.
Fonta Ict4Executive. Intervista a Martin Lindstrome